Roberto Chiesi
Contaminazione e trasgressione: il cinema di Pasolini


Frontalità ossessiva delle inquadrature, fotografia in bianco e nero "sporca" e contrastata, adozione di un gergo aspro e greve, scelta di musiche sacre (Bach) a commentare drammatiche sequenze di degradazione, doppiaggio babelico, volti e corpi "sgradevoli", paesaggi di desolate periferie: il cinema di Pasolini, fin dal primo film, Accattone(1961), possiede già i connotati neoespressionistici di uno stile che trasgredisce violentemente i codici formali istituzionalizzati, come, analogamente, la sua poetica, ispirata all'ideologia marxista, privilegia soggetti imperniati sugli strati sociali più disprezzati, provocando ed aggredendo, così, i pregiudizi conformistici delle classi dominanti.

Fino a La ricotta (1963), Pasolini ha raccontato le vite tragiche dei diseredati e dei reietti del sottoproletariato romano rivelando il carattere religioso insito nei loro travagli e li ha elevati ad una sacralità che trova il suo corrispettivo formale nella composizione delle immagini, evocativa della grande pittura sacra quattrocentesca.
L'intera opera cinematografica pasoliniana è, quindi, dominata dall'ossimoro, dall'accostamento, contradditorio e provocatorio, di immagini e suoni.
Da Il Vangelo secondo Matteo (1964), il poeta-regista ricorre anche alla Contaminazione, ispirandosi a San Matteo, a Sofocle, ad Euripide, quindi ai racconti di Boccaccio, di Chaucer, alla favolistica araba ed, infine, a Sade, ma, con la parziale eccezione del Vangelo che riprende il testo alla lettera, dei classici Pasolini conserva soltanto la funzione di archetipi sul cui impianto crea arcaici e barbarici labirinti dalle implicazioni psicanalitiche e dalle estrose invenzioni figurative (Edipo Re, 1967, e Medea, 1969), o preziose evocazioni della sfrenata carnalità di un Passato mitizzato e favoloso (la Trilogia della vita), o una atroce, metaforica "visione medievale" sul Presente "omologato" (Salò, 1975).

Come era già accaduto con la poesia e la narrativa, anche il cinema divenne per Pasolini uno strumento di sperimentazioni diegetiche e linguistiche: in Uccellacci e Uccellini (1966), egli, all'interno del racconto, ne innesta un altro più breve con funzione di apologo allegorico; nei cortometraggi La terra vista dalla luna (1967) e Che cosa sono le nuvole? (1967), l'uso vivacissimo del colore accentua la comicità burlesca e "chapliniana" del racconto che, nel caso del secondo film, è giocato sui due piani speculari del teatro (di marionette) e della realtà; se Edipo Re ha una struttura circolare con il prologo e l'epilogo ambientati in tempi e luoghi determinabili ed un nucleo centrale calato nel Mito, Teorema (1968) è una metafora, mimetizzata da dimostrazione geometrica, sull'avvento del Mito (Eros) e in Porcile (1969) si intersecano due diversi piani narrativi, uno dei quali, ancora, è collocato in un Passato mitico.
La rabbia (1963) e Comizi d'amore (1963) rappresentano i primi esempi pasoliniani di cinema in forma di analisi saggistica, forma alla quale egli, in seguito, conferirà un carattere apparentemente occasionale di "appunti cinematografici" per progetti di film (Appunti per un film sull'India, 1968, e Appunti per un'Orestiade africana, 1970).
A queste opere, più direttamente aderenti all'idea pasoliniana del cinema come "lingua scritta della realtà", e quindi ricche di annotazioni antropologiche, ideologiche e paesaggistiche, si affiancano alcuni cortometraggi che si possono considerare gli equivalenti filmici degli Scritti corsari (Le mura di Sana, 1971-74, e La forma della città, 1974).


n. due-tre, dicembre 1995 - 1996, n. 1


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