Stefano Colangelo
Nota su Fortini critico.


L'occasione di discutere e quella di ricordare, oggi per fatalità unite, conducono a riflettere in breve sul lavoro letterario di Franco Fortini. Anzi, ad isolare in quel lavoro qualche specifico percorso e qualche funzione di metodo. Probabilmente a Fortini - che in relazione al proprio laboratorio sapeva tenere la posta in giuoco sempre altissima, quando "praticava" la letteratura non come esercizio ludico-accademico, bensì come luogo di esame totale, nientemeno, della complessità dei rapporti interumani - questo frettoloso isolamento di particelle non sarebbe piaciuto affatto. Fortini era l'uomo delle sintesi coraggiosissime e complesse, non il coltivatore di orticelli ristretti, scollegati e liberamente addizionabili. L'estremista del metodo, diremmo ancora, non l'eclettico.

L'instancabile perplessità di Fortini su ruolo e funzione della letteratura non ha mai indotto il critico all'ipotesi rinunciataria: a pensare, cioè, che il discorso letterario dovesse brancolare ad ogni angolo di se stesso, irrelato e privo di cÚmpiti. Al contrario, Fortini ha voluto porre continuamente in giuoco un cÚmpito ideologico preciso, del quale proprio il discorso letterario avrebbe dovuto formare (con una sottolineatura tutta speciale del termine) il segnale insostituibile. Tale compito era criticare. Con il coraggio dell'errore (Lessing su Corneille o Lukács su Proust e Brecht erano i riferimenti) e con tutta l'energia scaturita dall'errore di chi affronta la più ampia scala dei problemi (aggiungiamo noi, richiamando i termini di quel grande amico ed interlocutore di Fortini che fu Viktor Šklovskij).

Ragionando, anche se con una forzatura, sopra ipotesi maledettamente attuali di "classi oppresse", potremmo far ripetere compiutamente allo stesso Fortini, ora, la formulazione del suo progetto: "criticare l'immagine mistificata, ossia la forma illusoria, che la classe oppressa ha di se stessa".

Criticare e formare, dunque, le due condizioni di necessità del lavoro del letterato. Scomode e nette le altrettante conseguenti posizioni: il richiamo al Sartre "impegnato" di Qu'est-ce que la littérature e contemporaneamente la denuncia di snobismo del celebratissimo Breton, sacerdote della "distanza" e della "sfiducia" nei confronti della comunicazione con un orizzonte di realtà. La prima posizione, peraltro, Fortini l'avrebbe tenuta salda più a lungo dello stesso Sartre.

Il termine orizzonte non suona affatto improprio, crediamo, per un'attitudine critica che puntava a "verificare" (tutti i termini che portano in sÈ l'impronta etimologica del "vero" conservano nelle pagine di Fortini un peso particolare) come uno schema storico, ideologico ed estetico potesse adottare e "ricevere" la presenza di un singolo autore o testo. Queste cose (lo ricordiamo tra i denti, perchÈ a Fortini non piacerebbe essere tacciato a posteriori di divinazione) erano scritte già nel 1960, nel pieno fiorire delle aiuole della nuova filologia e della "scienza della letteratura", e sette anni in anticipo su quella prolusione di Hans Robert Jauss a Costanza, che proprio alla nozione di orizzonte avrebbe fornito enormi e noti elementi di sviluppo.

La tendenza ad arretrarlo e ad ampliarlo, quell'orizzonte, quando si trattava di offrire un giudizio di lettura sulla produzione estetica delle avanguardie del Novecento, esponeva il critico al fuoco polemico di varie postazioni. Fortini cercava invano nei testi letterari a lui contemporanei il segnale di un'avanguardia insieme "dirompente" e "pronunciabile". Egli osservava invece la nuova avanguardia appropriarsi "antologicamente" dei fenomeni del linguaggio tragico-romantico d'inizio secolo e restituire quei medesimi fenomeni sotto forma di strumenti di lucida parodia e dissacrazione.

"Estremismo neosurrealista", compendiava Fortini questa parabola del cinismo. L'alternativa era, al contrario, la chiarezza, che poteva formarsi e conquistarsi fuggendo, con i propri mezzi, la mimesi della banalità: "lo stile semplice vuol dire avere prima scomposto la molteplicità per ricomporla in un altro ordine". Avventura del fuggire e del formare, la chiarezza era un segmento di una dialettica. Rappresentava cioè per Fortini un cammino, un dialogo perplesso e mediatore, vivo ed insostituibile, attraverso il quale la forma e lo schema di un testo letterario giungessero a proporre un'eloquente resistenza al troppo rumore e al troppo silenzio d'intorno.


n. zero, maggio 1995 - 1995, n. 1


Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 1995-2018

 

 

 

 

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