Francesco Giardinazzo
Segni luminosi nella selva
I Fosfeni di Mirco De Stefani e Andrea Zanzotto*


*M. De Stefani, Fosfeni, testi poetici di Andrea Zanzotto, per voce recitante, quartetto vocale femminile, complesso da camera, ed. musicali Rivo Alto 1995 [CD e libretto italiano-inglese con presentazione, e testi originali


Parte mediana di un ciclo inaugurato da Galateo in Bosco (1978) e chiuso con l'approdo a Idioma (1986), Fosfeni (1983) focalizza una ricerca moltiplicata per affetti e ispirazioni su alcuni motivi che verranno riscattati dalla meditazione di una parola rinnovata nel recupero biografico del «parlar materno». Ora «ridotti» in antologia musicale [i testi seletti sono: COME ULTIME CENE; Amori impossibili come; Collassare e pomerio; DIFFIDARE GOLA, CORPO, MOVIMENTI, TEATRO (I); Ben disposti silenzi; (ANTICICLONI, INVERNI) (III); Righe nello spettro; FUTURI SEMPLICI - O ANTERIORI ?] dal compositore Mirco De Stefani che annota:

«Questo rapporto di tensione/coazione fra opposti polari - che si richiamano reciprocamente come manifestazione di una medesima realtà articolata su due aspetti collocati su un piano di ideale uguaglianza rappresentativa - indica il necessario legame e insieme la necessità di considerare entrambi gli aspetti, il musicale e il poetico, come forme di una più originaria unità. I ģvortici di segni e punti luminosiī generatisi tra esplosive spinte centrifughe e il sempre incombente collassare, sono gli indizi di un divenire problematizzato in cui il senso e il suono/luce si dispongono nell'immobile visibilità iconica di una partitura-diagramma-graffito nel cui silenzio baluginano, entro innumerabili estrazioni di tempo, le rispettive forme ed entropie. Il logos che Zanzotto intuisce quale 'forza insistente e benigna di raccordo, comunicazione, interlegame', può così alludere anche a questo desiderio di avvicinamento, di contaminazione, di corrispondenza assolutamente inevitabile che la musica intrattiene con la poesia, nella convergenza fondamentalmente complessa dei rispettivi processi scritturali e della loro sofferta attuazione / rappresentazione nello spaziotempo»

I problemi che ci troviamo davanti sono perciò di due ordini: l'uno formale, tecnico-compositivo, l'altro più affine a quella che potremmo chiamare una memoria ritmica interna alla poesia stessa. Dante definì la poesia «fictio rethorica musicaque posita», ripreso da un altro grande poeta, Tasso, il quale in uno dei suoi Dialoghi, La Cavalletta (1587), conveniva sulla «finzione retorica posta in musica» e piena però di «nove et estraordinarie dissonanze»: un' età quella di Tasso (1544-1595) e Claudio Monteverdi (1567-1643) cruciale per l'innovazione della poesia e della musica. Qualcosa di questi fosfeni possiedono le anáklasis del Malpiglio secondo (1585), quei riflessi che vengono propagati dai corpi spessi quali le nubi o per transpectum, come «diaffan da lume», per trasparenza:

(Ger. Lib. IX, 62: «[...]s'indorava la notte al divin lume / che spargea scintillando il volto fuori. / Tale il sol ne le nubi ha per costume / spiegar dopo la pioggia i bei colori; / tal suol, fendendo il liquido sereno, / stella cader de la gran madre in seno»).

Un confronto esemplare è rappresentato da Luigi Dallapiccola, partito dal capolavoro monteverdiano de Il ritorno di Ulisse in patria (1640) e approdato al proprio «Dramma in musica», Ulisse, il quale ad un certo punto recita: «Dopo le fatiche inani / briciole di sapere, vani / balbettamenti, sillabe soltanto / mi son rimaste invece di parole» (con chiaro debito al montaliano «sì qualche storta sillaba e secca come un ramo»). E aggiungeva:

«[...] Scrivendo da me il libretto posso rielaborarlo con la massima libertà. Posso organizzare il giuoco delle domande e delle risposte in funzione puramente musicale-costruttiva; posso infine decidere dove sfruttare quel potere di ėconcentrazione' così caratteristico della musica nell'Opera, di cui parlò una volta, e con tanta lucidità, Ferruccio Busoni. Il che significa vedere dove la musica ci consente di ridurre le parole a un minimo. Essendo il linguaggio di un libretto d'Opera diversissimo sia dalla lingua parlata, sia da quella del teatro di prosa, le parole devono essere scelte con grande cautela. Talora i problemi, in questo senso, sono di facile soluzione; talora presentano le massime difficoltà». (Nascita di un libretto d'opera [1967], in Parole e Musica, Milano 1980, pp. 527-8).

Il tema, cioè della frammentazione toccato da musica e poesia nel nostro tempo, rende del tutto evidente come il chiaroscuro formale mescidi con lieta furia l'armonia dell'idea cui risponderebbero le forme conquistate del verso (sonetto, madrigale...) all'entropia fuggente: in pagine esemplari sul Petrarca, Zanzotto parlava della «disseminazione degli istanti» cui il poeta indulge nel segreto desiderio di ricostituire nuovamente quelle perdute cadenze. La voceè strumento d'armonia e meditatio temporis discorde. Cuore, cervello, respirazione concorrono alla musica primaria ed essenziale dell'uomo, la fwn». Come distingueva già Eustache Deschamps (L'art de dictier, 1392), vi è una musica naturale, quella della voce «musique de bouche en proferant paroules métrifiées», ed una artificiale, strumentale. E in questa moderna, contratta «selva morale e spirituale» di Zanzotto/De Stefani, l'impervia strada e antica che lega la musica al canto poetico si risolve nella favola ispirata da delicati ideogrammi, i quali dalla linea retta della frase s'incurvano poi fino a comprendere l'icona come nei calligrammes di Apollinaire o, prima, in Rabano Mauro. Segni che corrispondono all'intraducibile brusio delle cose. Brusio dove quelle letteratissime selve si scompongono nelle minime rispondenze di accordi sincopati e come giunti da lontano, da uno spazio che rifiuta le ordinate geometrie urbane: «scarse parole e scarse linee» che musica e poesia, rifratte nella voce recitante, costruiscono per rapsodie sfuggenti, angeliche - ma pur sempre sospese al desiderio della terra. Si ricordi la bella definizione di Contini su Zanzotto «poeta ctonio» premessa al Galateo in bosco; si ricordi il desiderio del Verlaine «De la musique avant tout chose», per separarsi dal 'resto', inutile scoria della «letteratura». Ascoltiamo così i geli mattutini nel batticuore degli archi, il tranquillo sperdersi del fortepiano sui crinali ondulati delle colline del Soligo, come voce che a se stessa ripeta il cammino compiuto. Particole luminescenti di accordi, dove l'affrancamento dal melodramma verso un registro «grezzo» musica/parola sia spoglio delle piccole accortezze che permettono di colmare i vuoti armonici con un virtuosismo. La concessione qui è che la memoria si stenda per quanto più le sia possibile a rigenerare quella sapienza che comincia non col «fiat» bensì da una sorta di primordialità cellulare, da una mitosi che diventa grammatica della sostanza nella quale è scritta la ragione esistenziale, il codice a spirale di pieni e vuoti del divenire. È la musica infatti il senhal, lo sguardo che mette a fuoco infine l'immagine inquietandola nell'inquieto aforisma «et in Arcadia ego». Una fantasia, un'acustica dell'invisibile, che è pulsata al ritmo di una naturalis historia, in un poeta che sente certamente Tasso, ma anche Lucrezio, Galilei e Cartesio («e lampeggiava la ghiandola pineale», Righe nello spettro). Non è della langue, ma della parole, l'artigianale scomporre suoni ritmi intervalli. Il peso del reale, il nesso «psiche-storia-lingua», si scinde in scoria e numinoso:

«le numineux - distingueva Lacan - surgit à chaque pas, et inversement, chaque pas du numineux laisse une trace, engendre un memorial». (Le seminaire, livre VII, Paris 1987, p. 203).

L'opacità dell'esistenza, la difficoltà a decifrare questi luoghi oscuri che annidano dovunque appaiono antinomici ad ogni pensiero non solo biologicamente ma anche razionalmente; sfociano in quello che definiamo l'istinto di morte, nella solitudine che ne deriva. Ideogrammi occulti o palesi, il contrappunto delle note in partitura le scioglie come voci che si rincorrano, per riscatto dal farfugliare tormentoso del quotidiano - anche quando la poesia lo accolga nella dimensione più cara, nel «murmure» degli affetti. Lingua del pane e lingua del cuore, quella di Zanzottoè comunque una poesia en plein air: logaritmi melodici che la natura concreta in paesaggi, il cui canone idiomatico, «argotico» oppure «xenoglosso», concede materia per fughe, per ripiegamenti barocchi, in una dinamica proliferante simile a quella accertata da Boulez a proposito della monorythmica di Berg: una sequenza che prolifera e così facendo unifica il pensiero, lo rinserra completamente. La musica è fibra solenne ed emozionante della «domestica selva» (IX Ecloghe). Ma questa fibra è raggelata; il gelo sembra dominare con l'inverno petroso di Dante o quello fiabesco di Rabelais: parole serrate come festuche in vetro tentano di uscire dagli «alba pratalia» sospesi fra indovinello veronese ed il fioccare come in alpe senza vento di Cavalcanti. L'energico temperamento delle petrose ricerca quello splendore giovanneo del lògos come parola originaria (Ur-Wort) richiesta da H–lderlin: logos, in ogni cristallo di brina, di neve, «lumini di mutanti alfabeti» radicati nella profondità della vita.

Ebbe a dire Vittorio Sereni (intervista del 1966 su La Nazione) che l'incessante terreno di coltura sul quale la poesia sorge è quello emotivo. Sereni è stato poeta, scrive Zanzotto (in Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano 1994, alle pp. 37-53), di «segreti sottili e complessi messaggi»; di una poesia «nata con l'umile semplicità del respiro» e destinata a «fare i conti con la minaccia di un ėdovere' della poesia, sia come ėimpegno' verso il mondo, sia come espressione di un'etica interna alla poesia stessa». La Grazia e l'Eros, l'esile mito cantato dalla «tenui avena» in fuga dai «dulcia arva» degli anni passati, appaiono in Fosfeni come debito grande e di pregio nel loro referente sereniano più prossimo, cioè Un posto di vacanza. Corrisponde anche in ciò che Zanzotto ebbe a dire di questo vertice poetico: «la tessitura di continuità tramata di discontinuo, l'ostinato riporto dell'eros alla visione, la minuzia dei particolari realistici in un racconto dissolto in allure analogica, il volere far stare l'aperto e l'espanso dell'alterità, della storia, dentro la puntiforme verifica dell'unicità di un vissuto...». Sono parole di anni non sospetti (1967), ma sono anche le tracce di una strada maestra che poi riscrive da una Stella variabile quei «Ben disposti silenzi / indisseppellibili / ma pur sparsi in scintillamento nudo» (Ben disposti silenzi). È un debito da meditare questo di Zanzotto con Sereni, se solo pensiamo a quanta importanza veniva affidata al problema formale non solo da questi ma addirittura, esempio illustre e trascurato, dai Poemi lirici di Bacchelli (1914) cui tanto deve la poesia del nostro secolo. Un'ultima risonanza la riserviamo a Leopardi. L'incipit zanzottiano «Sete notturna di marzo, / arse campagne rasoiate a freddo / [...] che nella rasoiata troviamo non abbaiare / la strada la svolta / [...] ma non notte, ma sobbalzare nella notte, / strade cui ogni più minima cosa accorse a morire...» s'accosta a quello dello Zibaldone [1]:

«Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante. Era la luna nel cortile, un lato tutto ne illuminava, e discendea sopra il contiguo lato obliquo un raggio...».

Quell'obliquo raggio tramuta in rasoiata, l'abbaiar dei cani in «non abbaiare», e il lume del «verecondo raggio / della cadente luna» tramuta nel gelo della notte, la «placida notte» scesa su «tacitis silvis» (Aen. VII, 505):

«Era la notte, e ėl suo stellato velo / chiaro spiegava e senza nube alcuna, / e già spargea rai luminosi e gelo / di vive perle la sorgente luna....». (Ger. Lib. VI, 103).

Questo strano Pierrot lunaire che abita Fosfeni ha in sé quel segreto scavato in ogni vita con tenera melodia.

 


[versione cartacea: n. quattro-cinque, maggio 1996, pp. 16-19 - versione web: 1996, n. 2, II semestre]

 


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