Alessandro Romanello
Sul Laborintus di Edoardo Sanguineti.


Composto tra il 1951 e il 1954, negli anni in cui l'ermetismo d'entre deux guerres andava convertendosi all'impegno sociale imposto dai tempi, il Laborintus di Sanguineti è l'opera inattuale di un isolato che riprende il discorso interrotto delle avanguardie storiche, convinto che solo nel linguaggio disarticolato e informale dell'avanguardia risieda la verità occulta dell'arte nell'età dell'industria culturale e della mercificazione totale.

La metafora del labirinto vale qui come paradossale criterio d'orientamento: solo riconoscendo infatti l'irratio profonda che pervade le manifestazioni della ragione borghese si dà la possibilità di criticarla e la speranza, un domani, di superarla. Il carattere di totalità autre che è proprio dell'arte d'avanguardia fa sì che essa possa in qualche misura interpretare la totalità degradata della società tardocapitalistica, l'orizzonte immobile ma confuso che è per destino il nostro. Il caos dell'opera d'arte d'avanguardia diviene così il crittogramma del caos autentico, della contraddizione in cui vive la società borghese di là dall'ordine apparente del sempre uguale, dalle speciose manifestazioni della ragione strumentale. L'avanguardia diviene in questo modo depositaria di un potenziale di realismo, sempre che per realismo non si intenda l'inerte mimesi del reale quanto piuttosto, sulla scorta della lezione di Brecht e di Benjamin, il trattamento straniante di materiali culturali e linguistici che, dopo il collasso della tradizione, si dispongono nei corridoi e nelle stanze di un labirinto metaforico che corrisponde tanto al palinsesto della psiche alienata, assediata dall'odierno bombardamento segnico, quanto alla figura storica concreta del MUSEO, l'autentico labirinto moderno, sede dell'adorazione feticistica di manufatti neutralizzati e fungibili, il cui caos grandioso, osservava per tempo Adorno, è una metafora dell'anarchia della produzione della merce nella società borghese sviluppata. Fare dell'avanguardia un'arte da museo, per riprendere la famosa parola d'ordine sanguinetiana, significava dunque accettare le regole del gioco, applicandole però in modo tale da demistificarle.

Delineate così le coordinate del realismo sanguinetiano, teso a fare esplodere le contraddizioni di una società che riduce il proprio patrimonio culturale all'omologia di mercato e museo, è chiaro che il ricorso al linguaggio stravolto dell'avanguardia debba avere nel Laborintus un carattere riflesso e, se si vuole, manieristico. Elevando, per così dire, l'avanguardia al quadrato, convertendo nell'esplosiva protesta in lucido assemblage di tecniche reificate (dalla scrittura automatica surrealista ai dotti intarsi d'origine poundiana ed eliotiana), che a loro volta, in una serie vertiginosa di mises en abÓme, violentano l'intera tradizione occidentale da Aristotele a Goethe e oltre, sancendone così la neutralizzazione operata dal museo e dall'industria culturale, Sanguineti fa della sua avanguardia di secondo grado una tecnica paradossalmente illuministica e liberatoria, che riconferma il nesso ineliminabile di poesia (per quanto luttuosamente museificata) e verità. E la diagnosi implicita in Laborintus vale anche come prognosi apocalittica, in un'età in cui non appare possibile uscire dalla Palus putredinis dell'alienazione, dalla "Valles mortis ma organizzata turisticamente" su cui siamo costretti a proiettare il nostro bisogno di individuazione.

Ed è in questo senso che Sanguineti si avvale con straordinaria maestria della simbologia alchemica già studiata da Jung, per conferire spessore mitopoietico alla nostra vicenda di ineluttabile e ormai banale degradazione: la misteriosa e irraggiungibile coniunctio solis et lunae dell'antica alchimia vale in Laborintus come simbolo di un anelito impossibile alla totalità, alla mediazione di soggetto e oggetto, di individuo e società, di conscio e inconscio.

Accolto come un'opera rivoluzionaria o al contrario come il frutto di un pervicace epigonismo, il Laborintus può essere letto oggi finalmente di là dalle polemiche contingenti del momento. Si tratta in primo luogo di un'opera di valore europeo, che, rivisitando criticamente la fase eroica e violentemente protestataria delle avanguardie storiche e aprendo, alo stesso tempo, la fase riflessiva e metalinguistica delle neoavanguardie, si riallaccia con vigore, già nell'assunzione polemica del linguaggio transnazionale dell'avanguardia, ad un'idea portante di Weltliteratur, certo più marxiana che goethiana, di là da ogni provincialismo, proprio negli anni in cui Pasolini proponeva uno sterile ritorno a Pascoli. E in secondo luogo, come ogni grande opera, il Laborintus è un ponte teso tra passato e futuro, una testimonianza dolorosa che ancora ci coinvolge. Oggi come non mai siamo immersi nella Palus sanguinetiana, solo che ai più essa sembra ormai bella e desiderabile, secondo le regole di quella fase estrema della modernità che taluni chiamano il postmoderno. L'accettazione gioiosamente isterica della omogeinizzazione dei valori culturali nel magazzino della tarda modernità (di cui mercato e museo sono agenti imprescindibili) rende auspicabile, oggi, in Italia, la rilettura di opere quali Laborintus, che di tale collasso della cultura voleva essere già nell'esibito disordine formale, lucida affermazione. E di più: con la dissonanza atroce e grottesca delle sue lasse terremotate, il Laborintus ammonisce a non ridurre l'arte ad una forma anestetica, come direbbe oggi Marquard, e quindi ad una resa all'esistente.

Ma, in conclusione, si vorrebbe trovare un nuovo filo d'Arianna che integrasse le ragioni di quel marxismo cui ancor oggi Sanguineti attribuisce la funzione di strumento interpretativo privilegiato del reale: fare dell'Avanguardia un'arte da museo potrebbe voler dire in questo caso uscire davvero dalla via negationis, lasciarsi finalmente il fango alle spalle, come a Sanguineti e a noi tutti è stato fino ad ora impossibile.


n. uno, agosto 1995 - 1995, n. 2


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